
Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
La vita è essenzialmente, mi diceva il mio prof di Filosofia, esercizio di morte. Quella che è stata dipinta come la bestia nera, come la cessazione di ogni attività fisiologica allora, mi chiesi io, non era poi così male?! Il solito frutto dei paradossi dei secoli.
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Stando davanti al proprio io, l’unico vero interlocutore delle proprie intime conversazioni, lo specchio immentibile di ciò che non è apparenza, o che non può esserlo in eterno, vediamo ciò che saremo in un progressivo sgretolarsi del nostro corpo, contenitore che limita lo spazio della nostra anima
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Non credo che morire, o maledire le bare, oggetti che sostituiscono i corpi come involucro di ciò che spereremmo possa essere anchilosato prima nella cute, poi nel mogano cambi la sostanza delle cose. Ed ancora una volta è il sol levante, il nascere perituro del giorno, la coscienza orientale a salvare ciò che l’imbrunire ci ha consegnato come cessat, pianto, estinzione della specie. Se pensassimo che morire non è perire, ma lasciare un contenitore, un corpo, non faremmo della morte un tabù che è 500 volte superiore a quello del sesso o delle droghe. Quando capita di parlare di morte, fra le superstizioni medievali, e un diniego e gli sguardi come se fossi allo strenuo di una grande bestemmia a cuore aperto, ci si sente avvolti in grande alone di tristezza. Ci siamo mai chiesti il perché?
Tu sei un avvocato, un commercialista, uno studente, un dentista, un architetto, un esimio notaio, un operaio, un contadino o anche nulla. Questo ci fa paura della morte: il sapere di dover lasciare la bella villa che ci siamo costruiti col sudore del lavoro, della nostra professione, sfruttati e repressi 5 giorni su 7;, mentre i germogli crescono, le rondi si cibano, il sole infuoca; è l’antenna parabolica sulle nostre teste che non vogliamo lasciare, il sogno che ci immedesima con gli idioti del tubo catodico; è la borsa prada o le scarpe martini, la mercedes piuttosto che il nokia, nostra moglie e i figli. Questo ci terrorizza della morte: perdere ciò che abbiamo accumulato. Ma la vita è esercizio di morte.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Ma ricordati, quando sarò morto che: io ci sarò. Ci sarò su nell'aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole.
Nel silenzio."