20 novembre 2009



Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
La vita è essenzialmente, mi diceva il mio prof di Filosofia, esercizio di morte. Quella che è stata dipinta come la bestia nera, come la cessazione di ogni attività fisiologica allora, mi chiesi io, non era poi così male?! Il solito frutto dei paradossi dei secoli.

Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Stando davanti al proprio io, l’unico vero interlocutore delle proprie intime conversazioni, lo specchio immentibile di ciò che non è apparenza, o che non può esserlo in eterno, vediamo ciò che saremo in un progressivo sgretolarsi del nostro corpo, contenitore che limita lo spazio della nostra anima

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un
sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi
non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente
chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i
giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Non credo che morire, o maledire le bare, oggetti che sostituiscono i corpi come involucro di ciò che spereremmo possa essere anchilosato prima nella cute, poi nel mogano cambi la sostanza delle cose. Ed ancora una volta è il sol levante, il nascere perituro del giorno, la coscienza orientale a salvare ciò che l’imbrunire ci ha consegnato come cessat, pianto, estinzione della specie. Se pensassimo che morire non è perire, ma lasciare un contenitore, un corpo, non faremmo della morte un tabù che è 500 volte superiore a quello del sesso o delle droghe. Quando capita di parlare di morte, fra le superstizioni medievali, e un diniego e gli sguardi come se fossi allo strenuo di una grande bestemmia a cuore aperto, ci si sente avvolti in grande alone di tristezza. Ci siamo mai chiesti il perché?
Tu sei un avvocato, un commercialista, uno studente, un dentista, un architetto, un esimio notaio, un operaio, un contadino o anche nulla. Questo ci fa paura della morte: il sapere di dover lasciare la bella villa che ci siamo costruiti col sudore del lavoro, della nostra professione, sfruttati e repressi 5 giorni su 7;, mentre i germogli crescono, le rondi si cibano, il sole infuoca; è l’antenna parabolica sulle nostre teste che non vogliamo lasciare, il sogno che ci immedesima con gli idioti del tubo catodico; è la borsa prada o le scarpe martini, la mercedes piuttosto che il nokia, nostra moglie e i figli. Questo ci terrorizza della morte: perdere ciò che abbiamo accumulato. Ma la vita è esercizio di morte.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Ma ricordati, quando sarò morto che: io ci sarò. Ci sarò su nell'aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole.
Nel silenzio."

16 novembre 2009



Mi sono sforzato di crederci, di assaporarne le gioie infinite e la passione di Eros, gli scambi irregolari della Philia, le dolci carezze dell’Agape. Girai le spalle, lo derisi, corsi furioso, lo tradì, poi ritornai fra le sue braccia e la Pazzia mi colpì e caddi come corpo morto cade….

Non è univoco, ne chiudibile in schemi preconfezionati da surgelare per mantenerlo vivo; vive alimentando se stesso coll fuoco della passione, degli sguardi, della angoscia, mai banale né scontato.
E’ credere, alzarsi ogni mattina e guardare oltre l’orizzonte che ci sta davanti e ripeterci che oggi è un giorno buono per gioire, ma anche per inginocchiarsi da soli in una stanza buia e piangere.
E’ il suono delicato di un’ oboe nella foresta, fra gli stranieri che non parlano la tua lingua, eppure sento ciò che sei.
E’ il canto traboccante dell’organo d’un Chiesa spoglia, dolce desiderio di rugiada dei petali che accarezzano lo spirito.
È il volo del gabbiano, che calibra le ali con impercettibile movimento.
È il dolce cammino del granchio che erra e torna sui suoi passi.
E’ Luna calante che si specchia nell’oscura sfera celeste;
mentre tutto le ricorda il suo dolce amore inciso sulle stanche rughe della faccia nascosta.
Come il lieve vento del ricordo, che riveste di poesia le anime, dona ancora l’ultima fioca luce ai suonatori che persistono alla triste morte del meriggio.
E medita, ascolta, piange ed osserva i teneri amanti al cielo consacrati, e solo per loro, notte dopo notte, risale con fatica una scala fatta di stelle.

E migra in quella solitudine per andare incontro a chi ne ha bisogno.

5 novembre 2009


Fato, caso, Dio, dado, illusione, grande ironia o credenza. Il destino, parola usata ed abusata.

«Il carattere di un uomo è il suo destino» recitava Eraclito. O ancora: “Il destino è spesso una comoda giustificazione per illuderci che tutto quanto accade non dipende da noi, ma da una forza misteriosa capace di trasformare i sogni in realtà e le nostre azioni in un fallimento”.

“Il destino è il nome che gli stolti danno al disegno di Dio”, dicevano altri. In questo sta tutta la contrapposizione, il dualismo che la parola in se contiene.

E le domande con risposte illusorie, quali: siamo davvero liberi, o un’oscura mano tiene le file di questo grande teatro chiamato vita? Prima del nostro concepimento, è segnato tutto il percorso della nostra vita? Ci sono eventi, che possono modificare il corso della nostra storia personale?

La grande domanda che i fatalisti, coloro che asseriscono che un destino dietro le nostre azioni c’è, evitano di porsi è: se Dio, il fato, il destino, chiamiamolo come vogliamo, esiste, c’è, influisce sulle nostre vite, scrive anzitempo una storia di cui solo dopo saremo protagonisti, perché scrive il male nel mondo? Se Dio sa che un bimbo dovrà nascere malato, perché non previene o evita; così come per le guerre o le catastrofi?!

La semplice risposta “ci mette alla prova” suona strana e minimalista e riduttiva agli immanentisti, che in cuor loro nutrono un profondo scetticismo verso la visione non libera del nostro percorso.

Chiamatela come volete, credeteci o meno, ma c’è una piccola verità, che è data da un attimo, una scelta, o forse una coincidenza, è l’attimo esatto dello sliding doors, per il quale un solo millesimo di secondo basta a modificare o decidere se ci sarà una vita piuttosto che un'altra, una reazione al nichilismo o un tuffo verso l’altro. Cari amici, la verità è una, ma non è la sola:

Il destino ci affascina, ci intriga, incuriosisce, eccita.. ed è per questo, che ci crediate o no, che quando ogni mattina vi svegliate pensate che anche oggi ce l’avete fatta….